Solo una decina di anni fa, presentarsi a un colloquio con un curriculum vitae che elencasse più di tre aziende alla voce “esperienze” poteva suscitare nel selezionatore un moto di disapprovazione, subito seguito dalla domanda sul perché il candidato avesse cambiato lavoro così spesso. Per il pensiero comune di allora, infatti se un dipendente cambiava lavoro frequentemente, molto probabilmente si trattava di una persona poco affidabile o poco efficiente.
Negli ultimi anni, le cose sono cambiate, e di molto. Da qualche anno, infatti, per un lavoratore il pensiero di rimanere nella stessa azienda dall’assunzione alla pensione è inimmaginabile. Tanto che le aziende fanno fatica a trattenere il personale alle proprie dipendenze. Questa tendenza si è diffusa soprattutto tra i Millennial, ed è stata chiamata job hopping (dall’inglese “to hop”, “saltare”), per l’attitudine dei lavoratori a cambiare azienda dopo pochi anni, quando non addirittura mesi, dall’assunzione.
Deloitte ha realizzato una ricerca che ha coinvolto 10 mila under 35, di 36 Paesi diversi, dalla quale è risultato che il 43% del campione si dichiara intenzionato a cambiare azienda entro due anni.
In generale, il job hopping è maggiormente diffuso laddove il tasso di disoccupazione è più basso e dove viene rilevata una consistente mancanza di manodopera. Ciononostante, in Italia, dove il livello di disoccupati è allarmante proprio nelle fasce generazionali più basse, il fenomeno è in crescita, secondo quanto emerge da una ricerca di Randstad.
Etica, reddito e motivazione alla base dei cambiamenti
Il job hopping è diffuso per varie ragioni, che possono andare dalla ricerca di un lavoro più stimolante, che permetta loro di crescere professionalmente, più redditizio, meno precario o, ancora, per poter fare esperienze diverse, possibilmente all’estero, per poi tornare in patria e risultare più “appealing” per i recruiter.
Secondo la ricerca di Deloitte, i Millennial sono interessati anche alla natura dell’azienda che deve accoglierli, con il 17% del campione che ritiene che l’azienda per cui lavora debba perseguire il proprio business in modo etico.
Dai dati rilevati da una ricerca di Gallup condotta negli USA, inoltre, emerge che i Millennial cambiano spesso lavoro perché poco coinvolti e stimolati: solo 3 giovani su 10 si sentono coinvolti a livello emozionale alla propria realtà lavorativa, mentre il 55% prova disaffezione verso la propria occupazione.
Gli effetti negativi del job hopping
Il job hopping, tuttavia, può essere un’arma a doppio taglio. Non sempre il job hopping permette di migliorare e di ampliare le proprie skill, al contrario accade spesso che impedisca di raggiungere un elevato grado di conoscenza del proprio settore.
I frequenti cambi di lavori in curriculum, inoltre, non danno garanzie al datore di lavoro sul piano della fedeltà aziendale, in considerazione delle risorse impiegate per la ricerca, la formazione e l’apprendistato del nuovo personale (per un costo che secondo Gallup supera già i 30 miliardi di dollari annui per le sole imprese americane).
Alla luce di questo fenomeno, quindi, per i datori di lavoro si rivela di fondamentale importanza l’Employee Retention, ovvero la capacità dell’azienda di attuare strategie e politiche per attrarre dipendenti talentuosi e conservarli a lungo.